Giovanni Pascoli, La canzone dell’ulivo

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Giovanni Pascoli si lega molto alla gente di Castelvecchio e percepisce l’amore che essa ha per la propria terra. Il poeta sente molto la bellezza dell’ulivo che veniva visto come il segno della pace, della luce e della morte.

La lirica mette in evidenza le doti e le prerogative dell’ulivo: la resistenza al tempo e alle intemperie, l’utilità del suo frutto, il senso di pace e di serenità che dona agli uomini col tenue e pallido verde delle sue fronde. L’ulivo è pianta resistente: affonda saldamente le sue radici nel terreno sassoso, impiega molti anni per diventare pianta che porta frutto, ma, come è stata lenta nel crescere, così dura a lungo nel tempo. Esso lega tra loro più generazioni, dando ai padri la soddisfazione d’aver piantato un albero non per il proprio bene, ma per quello dei figli e dei posteri. Il frutto dell’ulivo è prezioso, perchè l’olio non dà solo nutrimento, ma anche luce nella lampada; e come luce ci accompagna fin sul letto di morte. Indubbiamente l’ulivo è pianta che ispira sentimenti vicinissimi al poeta: la pace, che è il contrario dell’odio raffigurato nel vecchio castello (maniero); la generosità verso gli altri (il dono prezioso del suo frutto); la bontà, che è il contrario della cattiveria.

 

La canzone dell’ulivo

I

A’ piedi del vecchio maniero

che ingombrano l’edera e il rovo;

dove abita un bruno sparviero,

non altro, di vivo;

 

che strilla e si leva, ed a spire

poi torna, turbato nel covo,

chi sa? dall’andare e venire

d’un vecchio balivo:

 

a’ piedi dell’odio che, alfine,

solo è con le proprie rovine,

piantiamo l’ulivo!

 

II

l’ulivo che a gli uomini appresti

la bacca ch’è cibo e ch’è luce,

gremita, che alcuna ne resti

pel tordo sassello;

 

l’ulivo che ombreggi d’un glauco

pallore la rupe già truce,

dov’erri la pecora, e rauco

la chiami l’agnello;

 

l’ulivo che dia le vermene

pel figlio dell’uomo, che viene

sul mite asinello.

 

III

Portate il piccone: rimanga

l’aratro nell’ozio dell’aie.

Respinge il marrello e la vanga

lo sterile clivo.

 

Il clivo che ripido sale,

biancheggia di sassi e di ghiaie;

lo assordano l’ebbre cicale

col grido solivo.

 

Qui radichi e cresca! Non vuole,

per crescere, ch’aria, che sole,

che tempo, l’ulivo!

 

IV

Nei massi le barbe, e nel cielo

le piccole foglie d’argento!

Serbate a più gracile stelo

più soffici zolle!

 

Tra i massi s’avvinchia, e non cede,

se i massi non cedono, al vento.

Lì, soffre, ma cresce, nè chiede

più ciò che non volle.

 

L’ulivo che soffre ma bea,

che ciò ch’è più duro, ciò crea

che scorre più molle.

 

V

Per sè, c’è chi semina i biondi

solleciti grani cui copra

la neve del verno e cui mondi

lo zefiro estivo.

 

Per sé, c’è chi pianta l’alloro

che presto l’ombreggi e che sopra

lui regni, al sussurro canoro

del labile rivo.

 

Non male. Noi mèsse pei figli,

noi, ombra pei figli de’ figli,

piantiamo l’ulivo!

 

VI

Voi, alberi sùbiti, date

pur ombra a chi pianta ed innesta;

voi, frutto; e le brevi fiammate

col rombo seguace!

 

Tu, placido e pallido ulivo,

non dare a noi nulla; ma resta!

ma cresci, sicuro e tardivo,

nel tempo che tace!

 

ma nutri il lumino soletto

che, dopo, ci brilli sul letto

dell’ultima pace!

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